lunedì 18 marzo 2024

Deserto particular - Aly Muritiba

Daniel ha molti problemi, nel lavoro, è un poliziotto, è stato sospeso per aver picchiato una recluta, qualcuno ha filmato tutto e l'ha messo in rete.

in famiglia si occupa del padre ormai demente, che non può fare a meno di lui (meno male che per ogni emergenza c'è una sorella).

il rifugio e il segreto di Daniel è un rapporto solo online con Sara, che vive a giorni di distanza. 

quando Sara sparisce, non risponde più ai suoi messaggi, dal sud Daniel si sposta verso il nord, per cercare il suo amore.

con difficoltà riesce a trovarla e sono sorprese una dopo l'altra, in una sceneggiatura che non ti fa annoiare mai.

un piccolo grande film d'amore (e molte altre cose).

buona (sorprendente) visione - Ismaele

 

 

 

(recensione di Luca Baroncini)

Un po’ road-movie, storia d’amore, film di denuncia, anche politico considerando la tematica LGBT nel Brasile guidato dall’allora presidente Bolsonaro, “Deserto particular” è però principalmente un percorso di formazione, soprattutto di liberazione, dei suoi protagonisti Daniel e Sara. 

Lui è un agente di polizia sospeso per violenza privata, con un padre ammalato da accudire e una sorella con cui dividere le incombenze del quotidiano. Lei è in cerca di un’identità in un contesto sociale tutt’altro che complice. I due non si conoscono, vivono ai lati opposti del Brasile, sono entrati in contatto attraverso una app di incontri ed è nata un’intesa. Daniel, introverso e inquieto, pensa di avere trovato in Sara il grande amore della sua vita, ma sono tante le cose che non conosce e non pare ancora in grado di capire e accettare, anche di se stesso. Quando lei smette di rispondergli, lui abbandona tutto e parte per cercarla, mollando ogni responsabilità per quella che diventerà una vera e propria ossessione.

Sarà un viaggio di progressive scoperte e nuove consapevolezze, dove sentimenti e pulsioni usciranno allo scoperto creando prima conflitto, poi pacificazione. Il centro del racconto non è mai una tesi da esporre, un messaggio da veicolare, ma consentire ai due protagonisti di trovare la loro verità, con una parte conclusiva molto struggente in cui il lieto fine prende pieghe inaspettate, poco compiacenti nei confronti delle presunte aspettative del pubblico. Verrebbe voglia di sapere cosa succederà dopo ai due protagonisti, se la vita li ripagherà della stessa tenerezza che si sono concessi, ma l’obiettivo della sceneggiatura era dargli la possibilità di concedersi un futuro, dipende quindi da noi e dalla nostra sensibilità ipotizzare ciò che accadrà. 

È anche questo il bello di un cinema che non vuole spiegare niente, solo raccontare una bella storia, stimolare il confronto e dare ordine al nostro sentire.

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Muritiba li segue entrambi con i loro cedimenti, con i loro timori e anche, soprattutto per Daniel, con la necessità di confrontarsi con una scelta fondamentale. La camera lo accompagna nelle variazioni dei sentimenti senza mai indulgere in preziosismi fini a se stessi e senza (ed è un pregio) mai sovrapporsi ai personaggi. Ai quali viene lasciata per intero un'umanità anche contraddittoria ma proprio per questo veritiera e possibile.
Il deserto privato di un titolo che compare molto avanti nel film è quello di una società in cui il presidente si fa fotografare armato ma che comunque non rinuncia all'ipocrisia del perbenismo in una molteplicità di campi. Senza assumere i toni della denuncia il film invita a riflettere in modo non superficiale.

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Dopo aver attraversato il Brasile per raggiungere l’oggetto del desiderio, Daniel si deve scontrare con il fatto di trovarsi davanti a un soggetto, che, in quanto tale, è imprevisto quanto imprevedibile, mutevole quanto familiare nel suo essere intriso d’amore. Aly Muritiba, parlando del personaggio di Sara e descrivendolo come un personaggio dall’identità tanto salda (nonostante il continuo assedio che subisce) quanto aperta al cambiamento, esplica il cuore di Deserto Particular: “Questa energia della trasformazione e dell’avventura, questa energia dell’amore finisce per contagiare l’altro, incapace di cambiare ma che cambia prospettiva quando viene in contatto con l’altro che vive lontano. Quello che vorrei suggerire è che è possibile aprirsi all’altro, se lo si ascolta e lo si guarda in faccia“.

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venerdì 15 marzo 2024

Totem - Il mio Sole - Lila Avilés

il film racconta la storia con gli occhi di Sol, il suo babbo malato, che vive con la famiglia d'origine, è ormai alla fine, tutti arrivano per il suo compleanno, l'ultimo.

Sol vuole abbracciarlo, stare con lui, dargli un regalino, stare con lui.

riesce a stare con lui solo pochi minuti, tutto il tempo del babbo è per prepararsi, con l'aiuto della badante.

tutti vogliono dargli uno sguardo, un abbraccio, una parola, per Sol c'è poco tempo, purtroppo. 

il padre di Sol, Tona, un giovane pittore molto amato, riesce, con difficoltà a uscire in giardino, è una festa, anche il vecchio padre, con difficoltà di parola, gli fa un regalo, un bel bonsai. 

si capisce che Tona e Sol si sono voluti molto bene, loro lo sanno.

non perdetevi un piccolo film d'amore, a cui volere bene, miracolosamente al cinema, però solo in una decina di sale in tutta Italia.

buona indimenticabile visione della festa di compleanno di Tona - Ismaele



ps: nel 1932 Sergei Eisenstein gira ¡Qué Viva México!, che mostra il particolare rapporto dei messicani con la Morte (qui il film)

 


 

Opera seconda dalle messicana Lila Avilés, Tótem è un affresco corale in tono di commedia ma a sfondo drammatico che inquadra nell'immersivo formato 4/3 una giornata speciale di una famiglia estesa. Grazie all'adozione del punto di vista della piccola protagonista Sol (la magnifica esordiente Naima Senties), il film adotta l'approccio innocente alle complessità della vita che, filtrata dallo sguardo infantile, ritorna alla sua dimensione giocosa, caoticamente vibrante e straordinariamente magica.
L'ingresso in tale dimensione di leggerezza (ma non superficiale) è praticamente immediato, ed è sancito dal momento in cui la bimba varca la soglia della grande casa di famiglia indossando una voluminosa parrucca colorata e un naso rosso da pagliaccio. La mamma la spinge tra le braccia delle zie salutandola frettolosamente prima di tornare al lavoro: quel gesto corrisponde all'invito della 41enne regista di Città del Messico a farsi travolgere dal suo cinema luminoso, coloratissimo ed esplosivo, edificato su movimenti di macchina frenetici e fluidi piani sequenza che penetrano in ogni angolo della messa in scena, il tutto a misura di bambina…

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Lo sguardo di Sol – o “Solecito“, come lo chiamano le zie – esprime tutto. In mezzo al caos familiare, alla paura, al nervosismo, all’impotenza e persino a una festa imminente, gli occhi della bambina rivelano la gigantesca tristezza che circonda e ingloba tutto. A sette anni sembra sapere di più, negare di meno e supporre in maniera più convinta che a suo padre, Tona, resta poco tempo da vivere e che non c’è motivo di festeggiare, per quanto dietro ai festeggiamenti del suo compleanno ci siano delle buonissime intenzioni. Vuole solo vedere suo padre, stare con lui, abbracciarlo, parlare degli animaletti che ama e dei quadri che lui realizza; approfittare di quelli che intuisce essere pochi momenti condivisi tra loro, quei minuti rubati al tempo che rimarranno impressi nella sua memoria per il resto della vita.

Sebbene lo sguardo di Sol in Tótem – Il mio sole sia anche quello della regista, Avilés non giudica gli atteggiamenti degli altri personaggi: ognuno affronta o meno la situazione con le risorse che ha o che gli mancano. E se Sol può provare distanza e persino una certa incomprensione nei confronti di ciò che vede intorno a sé, la cinepresa sa che alla fine sono tutti lì con lo stesso obiettivo e scopo: abbracciare Tona, festeggiarlo, sostenerlo, stare con lui e ringraziarlo per le esperienze che hanno condiviso. È questa nobiltà e generosità di spirito che nutre questo sorprendente film. Si affronta la morte come si può, non sempre come si vuole: Avilés lo capisce e lo trasmette perfettamente.

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TOTEM IL MIO SOLE (TÓTEM) è un commovente film corale, dove il microcosmo familiare è raccontato attraverso gli occhi di Sol, una bambina di sette anni, durante un giorno speciale di festa per celebrare il compleanno del padre pittore malato. La storia è un inno alla vita, all’amore, alla bellezza della natura e dell’arte, che con sincerità ed emozione affronta il tema della morte e allo stesso tempo celebra la vita. Sol infatti comprenderà l’essenza del lasciar andare e, proprio come accade nella cultura messicana, al tempo stesso imparerà a cogliere il respiro della vita e a viverne ogni sfumatura.

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La historia mantiene el interés, sin llegar a aburrir, y va creciendo con el paso de los minutos, hasta llegar a ese gran tercio final.

El otro aspecto positivo es el de la dirección, en donde Lila Avilés demuestra tener un gran talento a la hora de presentarnos cada una de las escenas, sabiendo mezclar muy bien esos planos fijos con unos en movimiento, y lo hace sin necesidad de excederse. Todo este talento de Avilés ya estaba presente en "La camarista", pero el problema en ese otro caso es que no estaba acompañado de un buen guion.
Una película fácil de recomendar, más que otras del cine latino actual, porque no tiene un ritmo pausado, con una historia sencilla con buenos momentos dramáticos y algunos momentos divertidos.

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giovedì 14 marzo 2024

Televideoarte - Giorgio Cappozzo

 


 

In occasione degli Oscar, sul Televideo Io capitano di Matteo Garrone è descritto come un film dedicato a Francesco Schettino e alla Costa Concordia. Qui siamo oltre il refuso, oltre l’errore. È provocazione, è performance, tanto da chiedersi chi sia l’anonimo autore del gesto, il Banksy di Saxa Rubra: un pigro redattore le cui fonti giacciono tra i meme della rete? Un hacker della concorrenza? Oppure, e io tendo a questa ipotesi, è frutto di un uso disinvolto dell’intelligenza artificiale, che com’è noto pesca informazioni senza discernere? Eppure, tra quelle pagine su sfondo nero che stanno alla tv come i vinili alla musica, feticcio di chi coltiva antiche abitudini, la fusione tra la pellicola del momento e le vicende dell’improbabile marinaio arriva come un sussulto vitale. Televideo, nato quarant’anni fa, rappresentò per il servizio pubblico un anticipo di futuro: interagire con la scatola quando i telefoni avevano ancora il filo. Introdotto agli spettatori da Enzo Tortora, nel suo Portobello, Televideo ha sfornato pixel di rubriche, dalle notizie all’oroscopo alla celebre pagina 777, dedicata ai sottotitoli. Malgrado le ambizioni, ha sofferto di budget ridotti e di scarse attenzioni, condividendo con fax e cd rom la sorte che tocca alle invenzioni precoci. Per questo è facile immaginare che il Televideo affidi all’errore in forma di gesto estetico la rivendicazione del suo esistere, in un mondo distratto dal furore tecnologico.

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mercoledì 13 marzo 2024

Regina rossa (Reina roja) – Koldo Serra

Vicky Luengo e Hovik Keuchkerian sono i protagonisti (come lo erano nel bellissimo Antidisturbios, di Rodrigo Sorogoyen), con la regia di Koldo Serra.

una storia piena di misteri, tratta un romanzo Juan Gomez Jurado.

un film diviso in sette parti, e non riesci a smettere, e poi molto è da spiegare, il romanzo è il primo di una trilogia (tutta tradotta in italiano), aspettiamo altre due mini serie, no?

buona (sorprendente) visione - Ismaele




 

 

Regina Rossa è un vero successo di contenuto e stile, una commistione perfetta: la serie riesce a mantenere lo spettatore sul filo del rasoio, con una trama intrigante e piena di svolte sorprendenti che mantengono costantemente vivo l’interesse del pubblico. Inoltre, l’introduzione di elementi di umorismo inaspettato aggiunge un tocco distintivo e rinfrescante al genere, offrendo momenti di sollievo comico senza sacrificare l’intensità della suspense.

Lo show si distingue come una serie che offre un’esperienza coinvolgente ed emozionante per gli appassionati dei thriller polizieschi, grazie al suo abile utilizzo della dinamica del gatto e del topo, alla sua trama intricata e al suo equilibrio tra suspense, intrigo e umorismo.

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La adaptación cuenta con un elemento muy importante que hace que destaque: la gran química entre los protagonistas. Vicky Luengo y Hovik Keuchkerian funcionan a la perfección como dúo de investigadores, dependen completamente el uno del otro y forman así una especie de familia, algo disfuncional, pero que hace que el espectador conecte con su dinámica. Ambos actores se han volcado al máximo en los papeles y encarnan a Antonia Scott y Jon Gutiérrez a la perfección. Eso puede resultar increíblemente complicado, incluso intimidante, cuando tienes delante a dos personajes que forman ya parte de la cultura popular en nuestro país. Pero, ambos dan vida a estas dos almas perdidas, que estaban destinadas a encontrarse y a hacerse compañía mutuamente…

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Vicky Luengo y Hovik Keuchkerian no es la primera vez que trabajan juntos, ni que interpretan a policías, a ambos los pudimos ver en la genial serie de Sorogoyen y PeñaAntidisturbios. En Reina Roja sus personajes son muy diferentes, pero se han afrontado a ellos con el mismo talento e intuición con el que estos dos intérpretes suelen sorprendernos en sus trabajos.

Vicky Luengo está soberbia como Antonia Scott. Su personaje está cargado de peculiaridades físicas y conflictos internos que la actriz hace suyos y les otorga de una naturalidad fascinante. Consigue que nos creamos su personaje y que queramos saber cuál será su futuro y qué pasado es ese que parece atormentarla.

Hovik Keuchkerian también está muy bien como Jon, pero quizá su personaje adolece de algo que encontramos durante la serie: diálogos artificiales y chistes poco graciosos que no acaban muy bien de funcionar, ni en el personaje de Hovik, ni en la trama de la Reina Roja

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martedì 12 marzo 2024

American fiction – Cord Jefferson

il film l'ho visto un paio di giorni prima che vincesse il meritato premio Oscar, per la sceneggiatura non originale, praticamente un premio a quel formidabile scrittore che è Percival Everett (che ha scritto Cancellazione, il romanzo alla base del film). 

Monk è uno scrittore che scopre che se il mercato vuole merda e tu gli dai merda sarai uno scrittore di successo, il mondo al contrario.

e intanto vediamo Monk alle prese con la famiglia, il lavoro, l'amicizia, l'amore, Monk è nostro amico.

un film da non perdere, promesso.

buona (politicamente corretta) visione - Ismaele

 

 

 

…Il paradosso è che Monk è comunque un emarginato, anche se non nell’accezione che farebbe di lui, secondo la potenza ineluttabile dei luoghi comuni, un perfetto esemplare della sua etnia.

È un emarginato a dispetto della sua origine e della sua appartenenza. Non certo per disagio sociale, quanto professionale, perché rinchiuso dentro le sue convinzioni intellettuali che gli fanno disprezzare il compromesso letterario, la scorciatoia commerciale, lo stereotipo come grimaldello per il successo. Monk è avulso da tutto ciò che lo circonda, dal contesto culturale, perché non produce, a quello accademico, che glielo rinfaccia e che lo accusa di insensibilità rispetto ai temi etici e razziali. E non solo, perché il suo disagio è soprattutto emotivo, visti i difficili rapporti in ambito familiare e sentimentale, dovuti alla sua incapacità di donarsi agli altri rivelando completamente la sua vera personalità.

Nonostante l’inesperienza di Jefferson come regista, il merito del film è di evitare di raccontare un prevedibile percorso di progressiva consapevolezza da parte del protagonista; piuttosto narra la problematica esperienza di un travestimento, diventando così una lucida satira in cui l’individuo è costretto dagli eventi a compiere tutta una serie di atti contrari alla sua volontà per allinearsi a una società ai cui valori non riesce ad adeguarsi.

E così Monk, ma il discorso potrebbe essere valido per chiunque, diventa parte di un meccanismo inglobante e annichilente dal quale è praticamente impossibile liberarsi e che forse conviene assecondare. D’altronde, è una finzione (non solo) americana, e quindi, idealmente, a vario titolo fingiamo sempre un po’ tutti. È il caso di arrendersi e ammetterlo.

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…American Fiction ha un intento limpido e netto, ovvero fare satira sull’industria culturale e su tutte le figure che le gravitano intorno. Una satira che centra il bersaglio, grazie soprattutto alla prova di Jeffrey Wright, finalmente centrale in un racconto e formidabile nel rendere la frustrazione del suo personaggio, e a quella di John Ortiz nei panni dell’agente di Monk, protagonista di alcune battute davvero folgoranti. Cord Jefferson ne ha per tutti: la narrativa black fatta sempre e solo di criminalità ed emarginazione, ben rappresentata dal romanzo bestseller We’s Lives in Da Ghetto di Sintara Golden (Issa Rae), in cui si imbatte Monk; i circoli letterari con i loro relativi premi, affidati nel migliore dei casi a membri della giuria svogliati; lo stesso ambiente di Hollywood, formato da un branco di ignoranti che si limita a farsi riassumere dagli assistenti sinossi di libri da trasformare in potenziali successi.

Il regista non nega il razzismo ancora dilagante (la scena del tassista che lascia a piedi Monk subito dopo la sua affermazione sulla razza è emblematica in questo senso), ma mette in luce il fatto che buona parte del successo della cultura woke è determinato dalle scelte e dai potenziali profitti dei padroni di sempre (quindi in maggioranza bianchi), che seguono solo il vento dei soldi, assecondando il mercato in direzione di ciò che lettori e spettatori vogliono sentirsi dire. È questo l’aspetto più convincente e sicuro di American Fiction, che a ritmo di jazz (non a caso cuore della colonna sonora) mette a nudo i limiti di una parte di società, che cerca invano di ripulirsi la coscienza con crude storie di violenza e sopraffazione, farcite di armi da fuoco, mascolinità tossica e forze dell’ordine corrotte…

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A fare da mattatore in questo racconto, al limite del surreale, un Jeffrey Wright in grande forma che dà vita ad un personaggio ben costruito, perso nelle proprie convinzioni ed estraniato dalla realtà. Il suo Monk è chiuso nella propria campana di vetro in cui tutto funziona nel modo in cui il personaggio vuole che il mondo giri ma che è ben distante da come realmente stanno le cose. La non accettazione dello stereotipo, in cui il personaggio si sente ingiustamente collocato, è la spinta narrativa che funge da satira della società moderna e di come essa sia lo specchio dell’ipocrisia e dell’incoerente percezione di inclusione che spesso viene raccontata dai media…

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la película, sostenida maravillosamente en el guión de Jefferson y el excelente desempeño de todo el elenco con un Wright exquisito a la cabeza, va más allá del ataque a la “pornografía traumática negra” del ámbito literario, musical y cinematográfico porque su análisis incorpora la complicidad de los propios afroamericanos, así tenemos primero a Thelonious, que desprecia las obras de arte que solidifican el formato del morocho pobre, drogadicto, holgazán, violento y/ o asesinado por la policía que suele venderse a los blancos con síndrome de culpa, y segundo a Sintara Golden (Issa Rae), una negra que asimismo escribió un bestseller patético y ultra estereotipado sobre la comunidad negra y que para colmo defiende el cliché y su actitud diciendo que ofrece lo que pide el mercado, al igual que los narcotraficantes o la enorme maquinaría capitalista en general que condiciona/ lobotomiza a su público o clientela. Jefferson redondea una obra muy graciosa que se pone algo sensiblera en el último acto aunque logra jugar con la metaficción, tanto en materia del libro de Monk –My PafologyFuck– como en la adaptación hollywoodense, y además se burla de los burgueses que crean productos hipócritas sobre los menesterosos…

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